Cose di solfeggio

Cose di solfeggio

All’inizio devi decifrare. Ad ogni segno sul pentagramma dare il nome della nota, cercare il tasto corrispondente e pensare a quale dito lo deve suonare e poi verificare con l’orecchio se è più o meno giusto.
Segno, nome, tasto, dito, suono. E poi un altro. Segno, nome, tasto, dito, suono. E poi un altro. E un altro ancora.
Si impara a “leggere” la musica, ma non è come imparare a leggere, e nemmeno come imparare una nuova lingua. E’ un linguaggio che diventa gesto e poi diventa suono, e i passaggi sono lunghi e macchinosi.
Segno. Nome. Tasto. Dito. Suono.
Poi passano i mesi. E gli anni. Ogni giorno, tutti i giorni, tante ore.
Ti sembra di padroneggiare ormai quel processo di traduzione perché i problemi si sono spostati dal decifrare “segno-nome-tasto” a “dito-suono”. Non sei più preoccupato dal leggere, sei preoccupato dal gesto.
E passano le ore, tante ore, tutti i giorni. Per mesi e per anni.
E le mani rispondono: sai quale gesto corrisponde a quale suono. Il polso, l’avambraccio, la spalla, fino al peso della schiena e a come puntare il piede: tutto è funzionale solo al suono.
Torni indietro e ti accorgi che non leggi più.
Ogni nota sul pentagramma ha perso il suo nome. Non sai quale dito corrisponda a quale tasto. Il pentagramma è un arabesco di forme, note ammucchiate, incatenate, aggrovigliate, allungate: sono solo forme. Le guardi così come sono tutte insieme nei loro disegni. E nella testa immagini il suono che stanno a significare. E le mani si appoggiano ai tasti  e senza mediazione ti portano quel suono.
E hai passato ore e mesi e anni ad imparare un linguaggio che è diventato veramente tuo nel momento in cui lo hai dimenticato. Distrazione dell’artista, non ti sei ovviamente accorto nemmeno di quando è successo.

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